mercoledì 16 settembre 2009

13. Il bilancio della guerra

Gli eventi della seconda guerra mondiale non fanno altro che confermare un’evidente verità storica, e cioè che “è la volontà di pochi uomini che decide il corso della politica” (RENOUVIN 1974 VIII vol.: 313). Ebbene, quella guerra, voluta da pochi uomini, ha causato 40 milioni di vittime, di cui 6 milioni di ebrei! Il costo maggiore è stato pagato dall’URSS, con 17 milioni di morti, seguono la Germania, con 5 milioni e mezzo, la Polonia con 4 milioni, il Giappone e la Iugoslavia, rispettivamente con 1,8 e 1,7 milioni, la Francia, con 530 mila, l’Italia, con 450 mila, la Gran Bretagna, con 400 mila, gli USA, con 350 mila.
Con quali risultati? Le tradizionali potenze europee, Germania, Francia e Gran Bretagna, escono, per ragioni diverse, con le ossa rotte. La Germania è ridimensionata e frammentata, la Francia è stata travolta dall’avanzata tedesca e non ha certo svolto un ruolo di prima grandezza, la Gran Bretagna non solo non è stata in grado di portare a termine, da sola, una guerra vittoriosa, ma ha visto dissolversi il suo impero coloniale. In Oriente, la grande potenza del Giappone ha dovuto rendere alla Cina la Manciuria e Formosa e ha perso la Corea e le ex colonie europee del Pacifico, che aveva occupato e che adesso acquistano l’indipendenza. In particolare, la Corea viene divisa in due zone d’occupazione, russa a nord e americana a sud. Hanno guadagnato Stati Uniti e Unione Sovietica, ma i primi hanno l’atomica, la seconda no. Le prospettive sono due: o l’URSS e tutti le altre potenze mondiali accettano la superiorità americana e s’inchinano di fronte alla sua cultura, ai suoi valori e ai suoi interessi, oppure si adoperano allo scopo di colmare al più presto il gap atomico. Viene prescelta questa seconda alternativa e inizia così la corsa al riarmo e, insieme ad essa, la guerra fredda.

12. Gli americani

Gli Stati Uniti escono rafforzati da una guerra che non solo non ha causato danni al loro paese, ma ha impresso uno straordinario impulso alla sua produzione industriale e alle sue esportazioni. Il big business, il grande capitale americano, sorto all’inizio del secolo, negli anni Venti subisce un’ulteriore accelerazione e concentra immense risorse economiche nelle mani di poche famiglie, come i Rockefeller, i Mellon e i Ford, che ormai sono in grado di condizionare la politica, interna ed estera, e di piegarla ai propri interessi. È sotto il governo dei repubblicani, ritornati al potere nel 1921, che gli Stati Uniti si avviano a divenire la prima potenza industriale, commerciale e finanziaria del mondo, e ad assumere il ruolo di modello capitalistico per antonomasia, animato dai principi liberali e in netta antitesi con il modello socialista.
Tra i due mondi (capitalista e socialista), che tentano di prevalere l’uno sull’altro, si istaura un clima di tensione, se non di guerra, che miete molte vittime, fra le quali spiccano, per celebrità, due onesti cittadini, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che devono subire la pena di morte nonostante sia nota la loro innocenza.

12.1. Il caso Sacco e Vanzetti
Sacco e Vanzetti sono due italiani di idee anarchiche che, agli inizi del XX secolo, emigrano negli Stati Uniti, dove trovano lavoro (l’uno fa il calzolaio, l’altro il pescivendolo), si sposano e hanno dei figli. Con l’accusa di omicidio a scopo di rapina, si celebra a loro carico un processo, che si presta ad essere interpretato come una campagna contro il pericolo anarchico e comunista e viene strumentalizzato di conseguenza. Si architetta, dunque, una gigantesca macchinazione organizzata dal giudice Thayer con la complicità della polizia, della giuria, dei testimoni, del ministero della giustizia e dei giornali, che si conclude con la condanna a morte degli imputati (1921). Gli appelli per la grazia, che provengono da tutto il mondo, specie dopo che un criminale ha confessato i nomi dei responsabili del misfatto, ottengono l’unico risultato di ritardare l’esecuzione: i due innocenti vengono ammazzati sulla sedia elettrica nel 1927. Possiamo considerarli due martiri della Ragion di Stato.

Nel 1924 agli “indiani” viene riconosciuta la cittadinanza americana, ma di fatto essi non godono della parità dei diritti. Quei pochi di essi, che sono rimasti in vita e che oggi vivono separati in apposite riserve, perseverano nel rifiutare i valori dei bianchi e continuano a sognare le verdi praterie di un tempo, quando erano i padroni del Nordamerica. Gli indiani chiedono invano il diritto di formare un popolo e invano sperano di ritornare a vivere secondo i propri costumi e in piena libertà.
L’ottimismo riposto in una crescita illimitata e nelle capacità autoregolative del libero mercato viene messo in discussione dalla crisi economica che colpisce l’America nel 1929. La crisi si prolunga e induce il presidente Roosevelt a rompere con la tradizione del laissez faire e a lanciare il cosiddetto New Deal, ossia una serie di misure governative, atte a ridurre la disoccupazione e sostenere l’economia, seguendo i suggerimenti dell’economista John Maynard Keynes. Il successo del New Deal dimostra che il mercato ha bisogno dell’intervento attivo dello Stato.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, gli americani, che rappresentano già la prima potenza industriale al mondo, non concepiscono alcuna forma di guerra che non sia difensiva e, siccome il conflitto mondiale appena esploso non sembra minacciarli, essi sono contrari a parteciparvi. Ciò però non impedisce loro di fornire armi alla Francia, alla Gran Bretagna e a tutti paesi nemici dell’Asse, compresa la Russia. Gli americani, infatti, sono profondamente attaccati ai loro principî democratici e si sentono affini a inglesi e francesi, piuttosto che a tedeschi e italiani, e questo è il loro modo di contrastare i regimi dittatoriali.. Un incontro fra il presidente americano Roosevelt e il premier inglese Churchill offre ai due personaggi l’occasione per esprimere il proprio punto di vista condiviso sulla politica internazionale. In pratica, essi riconoscono “il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere, e desiderano vedere restaurati i diritti sovrani e l’autonomia di coloro che ne sono stati privati con la forza”. In altri termini, auspicano un mondo dove ci si possa muovere liberamente e vivere in pace (Carta Atlantica, 14.8.1941).
È solo dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor che gli americani decidono di entrare in guerra, prima contro il Giappone (8.12.1941) e poi contro la Germania e l’Italia (11.12.1941). Solo adesso, infatti, Roosevelt può contare sul sostegno dell’opinione pubblica, anche se lui, personalmente, è convinto, da tempo, che un’eventuale disfatta della Gran Bretagna si ripercuoterebbe negativamente contro i principî ideologici liberal-democratici degli Stati Uniti e, indirettamente, contro i loro interessi economici e politici nel mondo. L’apparato industriale USA risponde con una massiccia e rapida conversione in senso militare e comincia a produrre aerei e navi da guerra, carri armati e cannoni, in così gran numero da consentire agli americani di incidere in modo determinante sull’esito della guerra. Dopo aver subito per sei mesi l’iniziativa giapponese, gli americani rispondono con la vittoria delle Midway (giugno 1942), ma la loro avanzata è rallentata dalla determinazione con cui si battono i giapponesi, i quali possono contare anche sulle azioni suicide dei kamikaze che, a bordo dei propri aerei, carichi di esplosivo, si lanciano contro le navi nemiche.
Consapevole del proprio valore in campo economico e tecnologico e in prospettiva degli imponderabili risvolti della guerra in corso, Roosevelt decide di realizzare quanto prima la bomba atomica e, a tal fine, approva uno stanziamento di 400 milioni di dollari, che dovrè finanziare il cosiddetto Progetto Manhattan (1942). Nel marzo 1943 vengono arruolati alcuni dei migliori scienziati del momento, Compton, Fermi e Lawrence, che, sotto la direzione del fisico J.B. Oppenheimer (1904-67), si riuniscono, insieme alle rispettive famiglie, a Los Alamos, una cittadina del New Mexico, dove conducono segretamente le loro ricerche, sotto la supervisione del generale Groves. Il 3.6.1945, quando il Progetto è quasi ultimato, alcuni scienziati ammoniscono il governo USA sui rischi dell’impiego bellico della bomba atomica e di una prevedibile corsa agli armamenti atomici, i cui esiti si preannunciano catastrofici. Essi, pertanto, suggeriscono di non usare l’ordigno contro il Giappone e di limitarsi ad un semplice uso dimostrativo (Rapporto Franck). Oppenheimer però si oppone e il Rapporto viene ritirato: il Progetto può continuare.
In vista dell’imminente disfatta della Germania, Roosevelt, insieme a Churchill e a Stalin, si riuniscono a Yalta, una cittadina ucraina sul Mar Nero (4-11 febbraio 1945), e stabiliscono, tra l’altro, che la Germania verrà divisa in quattro aree d’occupazione (una spetterà alla Francia). Rimane aperta la guerra USA-Giappone, che rischia di trascinarsi chissà per quanto tempo. Roosevelt, che non può contare ancora sulla bomba atomica, ritiene di doversi servire della Russia per avere ragione del Giappone e, quindi, si dichiara disposto, nonostante il parere contrario di Churchill, ad accordare generose concessioni a Stalin, a fronte dell’impegno sovietico di entrare in guerra contro il Giappone due-tre mesi dopo la capitolazione tedesca. In particolare, l’URSS riceverà tutti i territori perduti dopo la guerra col Giappone del 1904-5 e potrà partecipare all’amministrazione della ferrovia della Manciuria. Per il resto, Yalta non scende nel dettaglio dei singoli casi e si limita ad enunciare il principio, secondo il quale il nuovo assetto politico dovrà avvenire nel rispetto dei diritti sovrani dei popoli (ciò si tradurrà nel processo di decolonizzazione, che si avvia, per l’appunto, proprio nel 1945 e giungerà a conclusione a metà degli anni Settanta). A Yalta viene anche decisa la fondazione dell’ONU, che dovrà sostituire la Società delle nazioni con il compito di tutelate la stabilità dei nuovi equilibri politici.
Il 12.4.1945 esce di scena Roosevelt, stroncato da un’emorragia cerebrale, e gli succede il vicepresidente in carica, Harry Truman (1945-52), mentre la guerra contro il Giappone, che vede gli americani in netto vantaggio, è ancora in corso. Nella battaglia navale di Okinawa, il Giappone subisce una grave sconfitta e, in pratica, rimane senza flotta (aprile 1945), ma agli americani occorrono 25 giorni di durissimi scontri prima di conquistare l’isola di Okinawa (1-25 giugno 1945). Ora gli americani possono puntare direttamente sul Giappone. Sanno che i giapponesi sono esausti e stremati e non potranno resistere a lungo. Sanno anche che la Russia sta per entrare in guerra contro il Giappone e sono certi che, a quel punto, i giapponesi dovranno necessariamente arrendersi.
Dal 17 luglio al 2 agosto 1945, i tre grandi (Harry Truman ha preso il posto di Roosevelt) si riuniscono nuovamente a Potsdam, una città tedesca, dove precisano e completano i precedenti accordi di Yalta. L’URSS annette la Lituania, l’Estonia, la Lettonia, la Carelia, la Polonia e la Prussia orientali, insieme ad alcune regioni della Cecoslovacchia e della Romania, ed estende la sua egemonia anche in Ungheria, Bulgaria e Albania, con l’unica rilevante eccezione della repubblica federale Iugoslava di Tito, che si dissocia. In pratica, la Russia post-Yalta controlla i paesi dell’Europa centro-orientale, i cui governi vengono definiti “democrazie popolari” per distinguerli dalle democrazie borghesi occidentali, e rappresenta la maggiore potenza europea, in grado di competere ad un livello di parità con gli USA.
Proprio in quei giorni Truman viene informato che la bomba atomica è disponibile. Che fare? Truman, com’è comprensibile, vuole porre fine ad una guerra estenuante e alla morte dei propri soldati, ma sa che gli effetti della bomba atomica sono devastanti: gli esperti gli hanno spiegato che basta un solo ordigno nucleare per radere al suolo una città di medie dimensioni e per annientare la sua popolazione. Forse ricorda ancora l’ammonizione di Einstein che, qualche anno prima, aveva suggerito di fare esplodere la bomba atomica su un’isola deserta: ciò sarebbe bastato ad intimidire il nemico e indurlo alla resa. La cosa è fattibile, ma richiede una certa organizzazione e la massima pubblicità. Potrebbero occorrere settimane o qualcosa potrebbe non funzionare, col rischio di esporre gli americani ad una brutta figura. I giapponesi potrebbero rifiutarsi di credere che qualcuno possa essere tanto folle da lanciare un simile ordigno sopra un centro abitato.
Truman teme inoltre che le truppe sovietiche entrino a Tokyo prima degli americani: la Russia è già stata favorita a Yalta dalle concessioni di Roosevelt ed egli non può permettere che essa sia favorita ancora una volta. Perciò, alla fine, decide di assumersi la tremenda responsabilità: la bomba atomica va usata senza indugio e senza sconti. Essa dovrà colpire una città di medie dimensioni e il lancio dovrà essere eseguito in modo perfetto, al fine di dimostrare al mondo tutta la sua potenza distruttiva. Tokyo è troppo grande e una sola bomba non è sufficiente per raderla al suolo. Vanno bene città, che abbiano 200-300 mila abitanti, come Kyoto, Yokohama, Kokura, Niigata, Hiroshima e Nagasaki. Pochi giorni sono sufficienti per mettere a punto il piano di lancio e il 6 agosto tutto è pronto.
La prima bomba atomica della storia, o bomba A, è un ordigno all’uranio di 4 tonnellate e mezzo, all’uranio, di forma allungata, al quale si è voluto dare il nome scherzoso e gentile di little boy, “piccolo ragazzo”. Little boy viene caricato su una fortezza volante B-29, che decolla in direzione di Hiroshima, essendo preceduta da altri due aerei, che hanno la funzione di controllare se il cielo della città-bersaglio è sgombro di nubi (in caso contrario si sceglierebbe un’altra città), di riprendere l’esplosione e di usare strumenti per la rilevazione di informazioni scientifiche. Un appello a Truman di preannunciare di due giorni l’attacco atomico, in modo da risparmiare un gran numero di vite umane, cade nel vuoto e la popolazione, del tutto ignara di quanto sta per accaderle, è occupata nelle ordinarie faccende quotidiane, né si scompone più di tanto quando le sagome delle fortezze volanti fanno il loro ingresso nel cielo della città: sono ormai abituati alle incursioni aeree americane e quelle tre sagome potrebbero essere dei semplici aerei di ricognizione o dei bombardieri troppo lontani per colpire. Inoltre, volando ad un’altezza di oltre 9 mila metri, quegli aerei sono praticamente fuori dalla portata della contraerea, e così l’azione d’attacco può svolgersi in modo relativamente tranquillo e, secondo i programmi.
Quando little boy viene lanciato su Hiroshima, l’orologio segna le 8.15 e la gente si è da poco svegliata. Dopo una corsa di 51 secondi, la bomba, la cui potenza è di tredici kiloton (1 kiloton = mille tonnellate di tritolo), deflagra a 400 metri dal suolo e un immenso bagliore accecante avvolge la città, gran parte della quale viene letteralmente rasa al suolo e diviene, a causa dell’elevatissima temperatura, una sorta di gigantesco forno crematorio. Si stima che circa 100 mila persone vengono dissolte dal calore: sono ritenute le più fortunate, quelle che muoiono senza soffrire, senza nemmeno accorgersene. Altrettante persone moriranno, più o meno lentamente, a seguito delle ustioni o a causa delle radiazioni, dopo aver affrontato sofferenze di vario grado.
Per qualche giorno la situazione a Hiroshima è tale da impedire l’intervento dei soccorsi e forse non ci si rende pienamente conto di quanto è successo. Le autorità nipponiche hanno bisogno di un minimo di tempo per valutare la situazione e prendere decisioni. Ma Truman non aspetta e decide di lanciare una seconda bomba atomica, questa volta al plutonio, che è ancora più potente della prima e alla quale, a causa del suo aspetto panciuto, viene dato il poco grazioso nomignolo di fat man, “uomo grasso”. Il 9.8.1945 l’URSS, come previsto, dichiara guerra al Giappone e ciò dovrebbe bastare per indurre quest’ultimo alla resa, ma, lo stesso giorno, fat man infuoca il cielo di Nagasaki. Benché l’ordigno sia più potente, tuttavia, a causa di una certa imprecisione nel lancio, dovuta anche ad eventi atmosferici avversi, il numero delle vittime è inferiore: 40 mila subito, 70 mila nel tempo. Il 14.8.1945 il Giappone chiede la pace.
Perché viene lanciata la seconda atomica? Certo, non per porre fine ad una guerra, che è già finita. La ragione è un’altra: gli Stati Uniti vogliono lanciare un chiaro segnale di forza per annunciare all’URSS e al mondo la fine del loro isolazionismo. È il ruggito del leone. Da questo momento, gli americani fanno il loro ingresso sul palcoscenico politico internazionale col ruolo di primadonna. Il duplice messaggio che, con little boy e fat man essi lanciano a tutti i paesi della terra, è del tipo: “Attenti! Solo noi possediamo armi di distruzioni di massa, di cui avete visto due esempi a Hiroshima e a Nagasaki. Le stesse armi possiamo usare contro ognuno di voi. Siamo noi i più forti!” E così è. Il fatto poi che gli USA siano i soli a possedere armi atomiche, li pone ad un livello superiore a tutto il resto del mondo e contribuisce a modificare profondamente gli equilibri politici mondiale e ad inaugurare una nuova era. Se dopo Yalta-Potsdam emergono due grandi potenze mondiali di pari livello, USA e URSS, dopo Hiroshima-Nagasaki c’è una sola superpotenza: gli USA.

11. I cinesi

Nel 1919 la Cina è divisa politicamente e attraversa una fase di debolezza, mentre aspira all’unità nazionale. Nel 1921 a Shangai viene fondato il Partito comunista cinese, PCC (1921), che si arma e, grazie all’appoggio dell’URSS, mira a conquistare il potere. Le forze nazionaliste (anticomuniste), guidate dal generale Chiang Kai-Schek, conquistano il potere in una Cina unificata (1928), ma devono guardarsi dalle mire colonizzatrici del Giappone. Nel 1932 le truppe nipponiche penetrano nel nord della Cina e avanzano vittoriose, inducendo Chiang Kai-Schek a rifugiarsi a Chungking (1938), da dove continua la sua lotta, mentre sul campo si distinguono le forze comuniste, che, ricorrendo a tecniche di guerriglia, riescono ad opporre una valida resistenza e (1938-41) e gettano le basi per la futura conquista del potere.

10. I coreani

Nel 1945, dopo la sconfitta del Giappone e in base agli accordi di Yalta, la Corea viene divisa in due aree d’influenza: russa a nord del 38mo parallelo, americana a sud dello stesso. Qualche anno dopo (1948) vengono proclamate la Repubblica della Corea del Nord, a regime comunista, e la Repubblica della Corea del Sud, filoamericana.

09. I giapponesi

Dopo la Grande Guerra, il Giappone si riprende rapidamente, grazie all’estrema efficienza di un apparato industriale e finanziario, che è fortemente concentrato nelle mani di pochi gruppi monopolistici e riprende la politica imperialistica in Oriente. I giapponesi sono così pieni di sé da ritenersi una razza superiore. Nello stesso tempo, Hitler, loro alleato, sostiene la superiorità della razza ariana. In virtù di questi sentimenti, giapponesi e tedeschi si avviano alla spartizione del mondo. Da parte nipponica, questa tendenza, che è racchiusa nella formula propagandistica “l’Asia agli asiatici”, assume toni decisi dopo l’elezione del nuovo imperatore Hirohito (1926) e, ancor di più, a partire dal 1930, quando il paese si affida ad un regime dittatoriale di tipo fascista e, potendo contare su un esercito eccellente e una marina da guerra di primordine, avvia una politica d’espansione in Cina, che comporta la rottura dei rapporti con gli Stati Uniti e l’avvicinamento a Italia e Germania (Patto tripartito, 27.9.1940). Con questo patto le tre Potenze stabiliscono le rispettive aree di influenza: “il Giappone riconosceva la supremazia tedesca e italiana per la fondazione di un ordine nuovo in Europa e i suoi alleati gli riconoscevano la stessa missione in Asia” (CROUZET 1959: 301). L’espansionismo nipponico, come quello tedesco, si ispira alla fede nella superiorità della razza.
Il 7.12.1941 il Giappone, avendo deciso di eliminare ogni concorrenza nel Pacifico, attacca la base navale americana di Pearl Harbor e, con un’avanzata vittoriosa, occupa le Filippine, Hong-Kong, la Malesia, Singapore, l’Indonesia, la Birmania e minaccia l’Australia. L’11.12.1941 anche Germania e Italia dichiarano guerra agli Stati Uniti. Dopo aver arrestato l’avanzata giapponese con la vittoria delle Midway (giugno 1942), gli americani iniziano la controffensiva (settembre 1943), che però deve fare i conti con la fortissima resistenza opposta dai giapponesi. Alla fine, il Giappone deve piegarsi davanti al terrificante spettacolo delle due bombe atomiche, che il presidente americano Harry Truman ha ordinato di lanciare sulle città di Hiroshima (6.8.1945) e Nagasaki (9.8.1945).

08. I russi

Nel luglio 1918 entra in vigore la prima Costituzione sovietica, che prevede la creazione della Repubblica Sovietica Federativa Socialista Russa, alla quale si uniscono, pochi anni dopo (30.12.22), altre componenti nazionali, sì da formare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). A tutte le Repubbliche viene riconosciuto il diritto alla sovranità interna e alla libera autodeterminazione, compresa la libertà di staccarsi dalla federazione: l’unico legame è il Partito. Lenin inizia la sua politica con una lotta ferma contro l’analfabetismo, che ha lo scopo di elevare il livello culturale delle masse, mentre, in campo economico, attua il cosiddetto “comunismo di guerra” (1919-21), che consiste nell’obbligo del lavoro per tutti, nella soppressione dei privilegi di classe e nella collettivizzazione dei mezzi di produzione. La proprietà privata è limitata ai beni che servono alla soddisfazione dei bisogni personali. “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”: è questo il principio che guida il socialismo sovietico e non la piatta uguaglianza, poiché né le capacità, né i bisogni sono uguali nei singoli individui. Sul piano politico è riconosciuto il suffragio universale.
Il programma di Lenin prevede due tappe: la prima consiste nella conquista del potere da parte del proletariato e nella instaurazione della sua dittatura. Questo stato di cose avrà termine quando le vecchie classi privilegiate saranno scomparse e l’economia socialista consolidata. A questo punto si entra nella seconda fase del progetto, che consiste nell’abolizione delle classi e nell’inaugurazione della democrazia socialista. Nel 1921, ritenendo ancora prematura l’attuazione del socialismo, Lenin inaugura una nuova politica economica o NEP, che prevede una parziale apertura alla proprietà privata e ai metodi capitalistici e che dovrebbe caratterizzare solo il periodo di transizione al socialismo. Lenin è convinto che solo l’estensione della rivoluzione proletaria in tutto il mondo potrebbe consentire il passaggio dal capitalismo al socialismo. Sotto questo aspetto, egli si muove sulla scia di Marx, il quale aveva previsto che il comunismo non potesse sopravvivere a lungo in un solo paese (Attali 2008; 273).
Dopo la morte di Lenin (1924) si apre un’aspra lotta per la successione, che vede di fronte l’uomo più prestigioso del movimento bolscevico, Trotskij, col potente segretario generale del partito, Stalin (1879-1953), che ha la meglio. Chi è costui? Figlio di un calzolaio, dopo essere stato avviato agli studi per sacerdote, aderisce alle idee rivoluzionarie, e viene cacciato dal seminario (maggio 1899). Per 18 anni è braccato dalla milizie dello zar e costretto a vivere nell’illegalità. Contribuisce a fondare la Pravda (1912), di cui diventa redattore (1917) e, nel 1922, viene eletto segretario generale del Partito comunista. La nuova Costituzione del 1924 sancisce la dittatura del Partito comunista, che viene riconosciuto come unico partito legale ed è ormai in grado di esercitare una profonda influenza su tutti gli altri partiti comunisti europei. Espulso prima dal Partito (1927), poi dal paese (1929), Trotskij continuerà ad essere perseguitato da Stalin e infine sarà ucciso da un agente sovietico (1940).
Conquistato saldamente il potere, Stalin può avviare, a partire dal 1928, una politica economica sulla base di piani quinquennali, che vengono elaborati e gestiti centralmente e che si rivelano in grado di consentire una straordinaria crescita economica del paese e fare dell’URSS, in appena dieci anni, la terza potenza industriale del mondo, dopo USA e Germania. È vero che una consistente fetta del bilancio dello Stato è impiegata negli armamenti e che il tenore di vita della popolazione è tra i più bassi fra le nazioni industrializzate, ma è anche vero che il lavoratore sovietico beneficia di un sistema di protezione sociale che non ha eguali nei paesi capitalisti e dove la disoccupazione è praticamente sconosciuta: il lavoro in Urss è dovere di ogni cittadino, in accordo col principio paolino “chi non lavora non mangia”. La validità di questa politica è provata dal fatto che l’URSS esce indenne dalla crisi economica che, a partire dal 1929, investe il mondo intero. Da questo momento il modello comunista sovietico si pone come valida alternativa al capitalismo occidentale, dal quale è temuto, in quanto portatore di valori antitetici. Si comprende allora perché l’URSS solo tardivamente sia riconosciuta dagli USA (1933) ed ammessa nella Società delle Nazioni (1934). In questo momento l’URSS occupa il secondo posto fra i paesi industrializzati, e questo è ritenuto davvero sorprendente dai paesi capitalisti e depone a favore del sistema economico socialista.
Contro un’opposizione che sta emergendo all’interno del Partito, Stalin adotta una linea dura e non esita a servirsi dei campi di concentramento, i cosiddetti Gulag, di cui già dispone, e attuare grandi purghe (1936-38) per liberarsi degli avversari politici. Nello stesso tempo viene varata una nuova Costituzione (1936), che riconosce ai cittadini i diritti al lavoro, al riposo, alla sicurezza economica (in caso di vecchiaia o invalidità), all’istruzione e all’eguaglianza fra i sessi e fra tutti i cittadini dell’URSS. Riconosce altresì la libertà di coscienza, di parola, di stampa, di associazione e perfino di dimostrazione di piazza (art. 125). Adesso ci sono 11 Repubbliche federate, 22 Repubbliche autonome, 9 regioni autonome e 12 territori nazionali. Tutte le Repubbliche hanno organi di governo propri, ma le stesse istituzioni, e tutti i cittadini, a qualunque paese appartengano, hanno stessi diritti e stessi doveri. In pratica, la parità fra le Repubbliche dell’Unione rimane un semplice enunciato formale. Di fatto, acquista un ruolo preminente la Russia. Lo stesso avviene per le libertà individuali dei cittadini, che vengono sacrificate di fronte all’onnipotenza del Partito e dello Stato.
Nel 1938, non fidandosi degli occidentali e temendo di essere dato in pasto alle mire espansionistiche di Hitler, Stalin decide di intavolare trattative con quest’ultimo, che si concludono in un patto di non-aggressione e di spartizione della Polonia (23.8.1939). Allo scoppio della guerra, inizialmente i tedeschi hanno bisogno di tenersi buona l’URSS e lasciano che essa conquisti la Polonia orientale, annetta i paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), attacchi la Finlandia, tolga la Bessarabia alla Romania, ma poi, quando ormai il fronte occidentale è sotto controllo, i tedeschi cambiano atteggiamento e attaccano l’URSS (22.6.1941). Temendo il rischio di essere schiavizzate da Hitler, le popolazioni slave si stringono intorno a Stalin e oppongono una valida resistenza, potendo contare anche sugli aiuti di USA e Gran Bretagna. Alla fine della guerra, Stalin riesce, malgrado l’opposizione di Churchill, ad assicurare all’URSS il predominio assoluto sull’Europa orientale e centrale. Ora l’URSS è la seconda potenza mondiale, dopo gli Stati Uniti, che sono gli unici a disporre di un armamento nucleare. Nel giugno 1945 l’URSS firma la carta delle Nazioni Unite e diventa uno dei membri permanenti del consiglio di sicurezza.

07. La Palestina e gli ebrei

Alla fine della prima guerra mondiale (1919), gli ebrei in Palestina ammontano a 58 mila unità, ossia l’otto per cento dell’intera popolazione, ed sono determinati a proseguire la sua politica sionista, anche a costo di usare la forza e, a tale scopo, istituiscono un’organizzazione militare, la cosiddetta Haganah (1920), che comincia ad operare clandestinamente, proprio mentre la Palestina passa sotto il mandato del Regno Unito. Gli ebrei sono ben inseriti nell’apparato amministrativo britannico e, abbandonate le vesti di minoranza malvista a maltrattata, cominciano a comportarsi come “futuri padroni della regione” (MORRIS 2001: 121). Ciò crea una certa apprensione presso gli arabi ed è all’origine dei primi scontri con gli ebrei (1920). Gli arabi devono anche fare i conti con una certa opinione inglese, che guarda con occhio benevolo al progetto sionista. Secondo Winston Churchill (1921), “è palesemente giusto che gli ebrei sparsi per il mondo abbiano un centro nazionale […], e quale potrebbe essere se non la Palestina […]?” (MORRIS 2001: 131). Nel 1921 i sionisti pensano ad un Grande Israele che comprenda il Sud del Libano e la Cisgiordania. Le preoccupazioni degli arabi sono dunque giustificate e giustificata è anche la prudenza con si muove il Regno Unito, mentre il numero degli ebrei raggiunge le 85 mila unità (1922).
In un Libro bianco (1922), gli inglesi precisano che l’aver promesso agli ebrei una nazione in Palestina non significa dar loro tutta la Palestina, quindi si impegnano a ostacolare il disegno sionistico e limitare l’immigrazione e l’acquisto di terre da parte degli ebrei (1930), ma senza successo, visto che, nel 1931, il numero degli ebrei sale a 171 mila. Né si scorgono prospettive di miglioramento, anzi la situazione tende a peggiorare, soprattutto dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche da parte di Hitler (1933), che condannano gli ebrei (considerando come tale chiunque abbia almeno un nonno ebreo) all’isolamento civile e alla segregazione e li inducono a lasciare la Germania. Il flusso immigratorio registra dunque un’impennata e, in soli quattro anni, gli ebrei raddoppiano il loro numero, passando a 335 mila unità (1935) e sono sempre più fermamente intenzionati a portare avanti il loro programma sionistico. Gli arabi rispondono fondando il Partito arabo palestinese (1935), nel cui programma è compreso il proposito di impedire la nascita del focolare nazionale ebraico, e sollevandosi in rivolta contro gli inglesi (1936-1939). Anche gli ebrei hanno ragione per essere scontenti del comportamento degli inglesi, che ritengono colpevoli di porre dei freni all’immigrazione, e cominciano a colpirli con azioni terroristiche (1937-48), mentre intanto investono sugli armamenti e rinforzano l’esercito (1936-45).
Gli inglesi rispondono redigendo un nuovo Libro bianco (1939), in cui stabiliscono che: 1) entro 10 anni si dovrà creare uno Stato palestinese binazionale; 2) l’immigrazione ebrea sarà limitata a 15 mila persone per anno per un periodo di 5 anni; 3) dopo questa data, nessuna immigrazione potrà avvenire senza il consenso degli arabi. Gli ebrei si oppongono a questo disegno e rispondono in parte organizzando un’immigrazione clandestina, in parte insistendo in azioni terroristiche contro gli inglesi. Essi sono ormai 400 mila unità, ossia il 30% dell’intera popolazione palestinese.
Intanto scoppia la guerra (1939) e la situazione degli ebrei in Europa si fa sempre più difficile, e diventa tragica quando, dopo aver escluso la proposta di trapiantare tutti gli ebrei d’Europa in Madagascar, i dirigenti nazisti approvano il loro sterminio totale (conferenza di Wannsee del 20.1.42) ed ha così inizio quell’orribile massacro, che passerà alla storia col nome di “olocausto” (= sacrificio di un popolo a un dio) o, come preferiranno gli ebrei, shoah, un termine privo di significato religioso, che sta per catastrofe, distruzione. Ed è proprio la shoah che ha l’effetto di porre in secondo piano tutti i motivi che si opponevano alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina e orientare favorevolmente in tal senso una parte dell’opinione pubblica internazionale. Intanto il flusso immigratorio non si arresta e, alla fine della guerra, il numero degli ebrei in Palestina raggiunge le 600 mila unità.

06. Gli spagnoli

Allo scopo di far fronte alla difficile situazione sociale del paese, il re Alfonso XIII affida poteri dittatoriali al generale J. Primo de Rivera (1923-30), ma, alla fine, entrambi devono abbandonare il paese e viene proclamata la Repubblica (1931). Alle elezioni del 1933 si affermano le destre, che fondano la “Falange”, un’organizzazione fascista, ma, nella successiva consultazione elettorale del 1936 la vittoria arride ad una coalizione di sinistra, mentre frange estremiste anarco-comuniste chiedono la collettivizzazione delle terre e l’abolizione dei privilegi ecclesiali. Sentendosi minacciate nei loro interessi, la chiesa e le classi possidenti insorgono e fomentano la ribellione, che è organizzata e diretta dai capi militari. La guerra civile (1936-39), che esplode, vede opposte le forze, nazionaliste e fasciste, guidate dal generale Francisco Franco, detto il Caudillo (duce), a fianco del quale si schierano Italia e Germania, a quelle repubblicane, d’ispirazione democratico-liberale, che non sono appoggiate né dalla Francia, né dalla Gran Bretagna, anch’esse timorose di un’affermazione comunista.
Dopo aver conseguito la vittoria e aver ottenuto l’approvazione generale dei vescovi, Franco (1937-73) riesce, abilmente, a non invischiare nel conflitto mondiale il suo popolo, adducendo il pretesto che esso è spossato dalle sofferenze di una guerra civile, governa con moderazione e promuove un certo sviluppo economico del paese, sia pure all’interno di un regime autoritario.

05. I francesi

La Francia riesce a risollevarsi rapidamente dai danni subiti dalla guerra e, divisa fra tendenze liberali e socialiste, si lascia governare da governi sia di destra che di sinistra. Alle elezioni del dicembre 1919 si afferma il blocco nazionale dei conservatori e dei nazionalisti, ma ciò non può impedire che, qualche mese dopo, venga fondato il Partito comunista francese (1920), né è in grado di frenare l’avanzata delle sinistre, che conseguono la vittoria alle successive consultazioni del 1924. Gli anni fino al 1929 sono dominati dalla figura di Rayon Poincaré, che imprime alla politica una direzione in senso nazionalistico e assume un atteggiamento intransigente nei confronti della Germania, dalla quale esige il pagamento dei debiti di guerra, che essa non è in grado di onorare. Nel corso di un periodo di crisi economica (1930-38), si alternano al potere coalizioni di destra e di sinistra.
Dopo la travolgente avanzata delle truppe tedesche, che hanno occupato la Francia nord-occidentale, i parlamentari francesi, riuniti a Vichy, affidano i pieni poteri al generale Pétain, che si affretta a chiedere l’armistizio e instaura un regime autoritario, disposto a collaborare coi tedeschi (1940). Il tentativo di resistenza manifestato dai militanti comunisti, a partire dal 1941, viene represso con determinazione. Intanto il generale De Gaulle prende le distanze dalla politica di Pétain e, in un primo momento (1940) si rifugia a Londra, da dove esorta i francesi a lottare contro i nazisti, poi (1943) contribuisce a fondare un Comitato di liberazione nazionale (CLN), che, dopo la cacciata dei tedeschi, viene riconosciuto come il governo legale della Francia (1944). Da questo momento De Gaulle combatte a fianco degli Alleati fino alla disfatta della Germania (maggio 1945), creando le condizioni per una sua ascesa al potere.

04. Gli inglesi

Dal 1920 l’apparato industriale inglese attraversa un periodo di crisi, la disoccupazione è elevata e la Gran Bretagna deve cedere il primato agli USA come potenza commerciale mondiale. Nel 1930 la crisi sembra superata, ma quando cominciano a soffiare nuovi venti di guerra, la Gran Bretagna, temendo di rimetterci e di ripiombare in una nuova crisi, si adopera per la pace. Così, di fronte alla politica aggressiva che Hitler manifesta alla fine degli anni Trenta, il primo ministro inglese, Chamberlain, si muove con cautela e, nella speranza di separare Mussolini da Hitler, riconosce la conquista italiana dell’Etiopia (1938). Sempre allo scopo di evitare la guerra, quando scoppia la crisi cecoslovacca (autunno 1938), lo stesso ministro si dimostra accomodante e subisce l’intraprendenza dei tedeschi. Solo dopo l’invasione della Polonia, la Gran Bretagna sente di non poter fare a meno di evitare la guerra.
Dopo la disfatta francese, gli inglesi si trovano soli a dover contrastare l’avanzata trionfale della Werhmacht e a resistere alla evidente superiorità militare dei tedeschi. Il 10.5.1940, in un momento assai delicato per la Gran Bretagna, Winston Churchill sostituisce Chamberlain. Nell’autunno 1940, per circa due mesi Londra viene duramente bombardata, ma, sorprendentemente, non si piega, trasformando così quella che si prospettava come una guerra lampo in un conflitto di lunga durata. La tenace resistenza opposta ai tedeschi dalla Gran Bretagna è, certamente, merito anche degli inglesi, ma non solo: senza l’incessante aiuto americano e senza l’entrata in guerra degli USA, gli inglesi non avrebbero potuto evitare la capitolazione, ed è la prima volta nella loro storia che essi sono stati costretti a giocare un ruolo subalterno nei confronti di un’altra potenza.

03. I tedeschi

In Germania la Costituzione di Weimar (agosto 1919) istituisce una repubblica federale e parlamentare nel rispetto del Trattato di Versailles, ma ciò viene considerato dalla popolazione un discredito, visto che gli Stati vincitori hanno semplicemente imposto le loro condizioni, senza nemmeno interpellare il popolo vinto e inducendo gli Stati Uniti a rifiutare la ratifica. I tedeschi si sentono dunque umiliati e feriti nel loro orgoglio nazionale e, per di più, devono fare i conti con un’eccezionale inflazione che, se da un lato favorisce la riparazione dei debiti, dall’altro determina serie difficoltà economiche per la popolazione. Il desiderio di rivincita prende forma nel Partito nazionalsocialista che, fondato nell’agosto 1920, mira a restituire alla Germania la perduta grandezza. Dopo un iniziale periodo di ripresa (1924-8), a partire dal 1929 una nuova crisi economica colpisce il popolo tedesco, mentre la Francia ritira le proprie truppe dal suolo germanico. Sono le condizioni propizie per l’attecchimento della propaganda nazionalista e l’affermazione di Adolf Hitler (1889-1945), uomo politico, proveniente da una famiglia contadina austriaca, animato fin dall’infanzia dall’idea di una “Grande Germania”.
Il periodo della giovinezza di Hitler è vissuto all’insegna del grigiore. Compie gli studi secondari con profitto mediocre e conosce la miseria, dipinge per procurarsi da vivere, legge nel limite del possibile e si autoistruisce. Dal 1912 frequenta circoli razzisti, ma la sua vita non cambia. Accoglie con entusiasmo la guerra del 1914 e si arruola, distinguendosi per il coraggio (viene promosso caporale dopo pochi mesi) e ricevendo importanti riconoscimenti del valore militare. Alla fine della guerra, deluso per la sconfitta, solo, senza denaro, senza amicizie, sconosciuto, decide di cimentarsi nella politica e si iscrive prima nel Partito operaio tedesco (1919), poi nel Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, NSDAP (1920), entrambi di estrema destra e nettamente avversi all’avanzata del comunismo. È la svolta della sua vita: in quei partiti Hitler può far valere le proprie qualità oratorie e le proprie idee. Al centro del suo pensiero sta l’idea di grandezza del popolo germanico e il delirio della sua superiorità razziale. “Il Reich tedesco –scrive Hitler– ha il dovere, come Stato, di contenere tutti i tedeschi, con la missione non soltanto di riunire e conservare in questo popolo le migliori caratteristiche primordiali di razza, ma di elevarla […] ad una condizione di supremazia” (2000: 28). Il mondo avrà pace solo il giorno in cui l’uomo superiore sarà diventato signore della terra.
Hitler disprezza i diritti democratici dell’individuo, mentre esalta lo Stato, autoritario e piramidale, come mezzo per realizzare la purezza della razza. Questi sentimenti cominciano a radicarsi negli animi di molti tedeschi e finiscono per indebolire i princìpi repubblicani. Le libertà di stampa e di riunione vengono limitate e ampio spazio viene dato alla propaganda di partito. Nel 1921 Hitler fonda le SA (“reparti d’assalto”), una formazione paramilitare, a lui fanaticamente devota e comincia ad essere chiamato fuhrer, ossia “duce”. Dopo aver tentato invano di rovesciare il governo bavarese (1923), Hitler viene condannato a 5 anni di reclusione e, in prigione, inizia a comporre l’opera che diverrà la bibbia del nazismo, Mein Kampf. Rilasciato dopo alcuni mesi, il Fuhrer trova una Germania in ripresa economica e il suo partito disciolto. Sembra un uomo finito, ma riesce a ricostituire il Partito (1925) e crea le SS (“reparti di difesa”), una specie di polizia interna (1926). Nel 1928 il NSDAP ha 12 deputati, che diventano 107 nelle elezioni del 1930 e 196 nel novembre 1932, anche grazie alla crisi economica e all’appoggio della borghesia, che vuole, in quel modo, sbarrare la strada al comunismo. Il 30.1.1933 Hitler viene chiamato alla cancelleria, in un momento di crisi economica e di forte disoccupazione. Approfittando di un incendio scoppiato nella sede del parlamento ad opera dei nazisti, ma del quale vengono accusati i comunisti, ottiene i pieni poteri. La sua ascesa segna la fine della Repubblica di Weimar e l’inizio del Terzo Reich (Reich = Impero).
Hitler appare subito determinato a prendere la situazione in pugno e intraprende un cammino verso un regime dittatoriale: il 27 aprile dello stesso anno crea la Gestapo, una polizia politica, che la lo scopo di vigilare sulla sicurezza dello Stato, il 2 maggio vengono sciolti i Partito comunista e i sindacati e il 14 luglio il NSDAP diventa Partito unico. Contemporaneamente inizia il boicottaggio dei commercianti ebrei e vengono aperti i primi campi di concentramento. In quanto determinato avversario del comunismo, Hitler gode già delle simpatie del mondo cattolico, che diventano più solide quando il Fuhrer firma un concordato particolarmente vantaggioso per la Chiesa (20.7.1933), anche se poi non lo rispetterà. Il Patto d’intesa e di collaborazione sottoscritto da Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania (7.6.1933) cancella, di fatto, le ultime tracce di Versailles e riconosce la posizione di parità della Germania.
Nel 1934 Hitler riunisce nella propria persona le funzioni di cancelliere e di presidente del Reich, e avvia una politica interna tesa a rilanciare l’economia e a ridurre la disoccupazione. Il suo scopo è l’autarchia, ossia rendere la Germania il più possibile indipendente dalle importazioni dall’estero. Nel 1935, disattendendo le clausole dell’ormai superato trattato di Versailles, inizia a reclutare un grande esercito.
La reazione da parte delle altre potenze europei è debole e si limita a qualche protesta contro il riarmo della Germania (Conferenza di Stresa, 1935) e a qualche fragile accordo, come quello di mutua assistenza firmato da Francia e URSS nel 1935. I successi della politica hitleriana sono innegabili e, quando si svolgono a Berlino le Olimpiadi (1936), la Germania presenta al mondo un volto nuovo: l’ordine trionfa, la disoccupazione è quasi vinta, l’economia è in netta ripresa. Nel 1938, la dittatura di Hitler può considerarsi ormai assoluta. Il popolo vede in lui un ardente patriota, che desidera solo fare grande la Germania, un uomo d’ordine, che ha liberato il suo paese dall’anarchia dei partiti, un politico di destra, che fa da argine al comunismo, un sincero alleato della Chiesa.

03.1. Perché si è affermato il nazismo?
A lungo gli studiosi si sono interrogati sulle cause che hanno determinato l’ascesa del nazismo in Germania, senza trovare una risposta univoca. Qualcuno afferma che il nazismo non dev’essere considerato un tipico prodotto tedesco, ma l’interpretazione tedesca di un fenomeno europeo: quello di uno Stato retto da un partito unico e da un unico capo (RITTER 1953). L’anima profonda di questo fenomeno sarebbe da individuare nel nazionalismo, il quale, a sua volta, è alimentato da erronee convinzioni, come quella della superiorità razziale e culturale, dal desiderio di sottomettere il mondo alla volontà e agli interessi di un solo paese, dall’immaturità di un popolo (SHIRER 1962), dalla sua risposta irrazionale a secoli di oppressione da parte di strutture autoritarie, come la Famiglia, la Chiesa e lo Stato (REICH 1971), e dall’invincibile senso di insicurezza e solitudine che attanaglia l’individuo dopo l’avvento del capitalismo monopolistico (FROMM 1994; SOHN-RETHEL 1980). Tutto questo unito, ovviamente, alla peculiare personalità dell’uomo tedesco, che è stata forgiata dal militarismo prussiano (MEINÉCKE 1946).

Sin dall’inizio della sua ascesa al potere, Hitler appare meno incline ad occuparsi degli affari interni della Germania piuttosto che di politica estera e militare. I suoi obiettivi sono già illustrati in Mein Kampf: portare all’unità tutte le popolazioni germaniche e conquistare uno “spazio vitale” nell’Est europeo, vale a dire assoggettare le popolazioni slave in Polonia, Ucraina e Russia. Hitler nutre scarsa stima per le altre nazioni, fatta eccezione della Gran Bretagna, con la quale sogna di spartire il dominio del mondo: gli inglesi avrebbero dominato sui mari, i tedeschi su un’Europa unita. Nel 1938 occupa l’Austria senza incontrare sostanziali ostacoli da parte delle altre potenze: in fondo, egli sta cercando di unificare le popolazioni tedesche. Le cose cambiano quando Hitler occupa la Boemia e la Moravia (marzo 1939), che comprendono popolazioni avverse al germanesimo: da quel momento gli altri Stati cominciano a diffidare e a prendere le distanze, ma Hitler insiste e, dopo essersi coperte le spalle, firmando con la Russia un patto di non aggressione (24.8.1939), attacca, senza alcuna dichiarazione preventiva di guerra, la cattolica Polonia (1.9.1939), convinto che anche questa volta verrà lasciato fare. Questa volta però Francia e Inghilterra gli dichiarano guerra (3.9.1939), l’Italia lo appoggia, ma non interviene, Pio XII tace. Ha inizio così la seconda guerra mondiale, la cui causa prima è chiaramente da individuare nelle mire espansionistiche della Germania.
Il 18-19 settembre, i ministri degli esteri di Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia si riuniscono a Copenaghen impegnandosi a mantenere una politica neutrale. Ciò nonostante, gli Stati suddetti, con l’eccezione della Svezia, verranno forzatamente coinvolti nella guerra. La prima ad essere coinvolta è la Finlandia, che, rea di essersi rifiutata di concedere all’URSS alcune basi militari e di aver respinto la richiesta sovietica relativa ad alcune rettifiche dei confini, deve subire l’attacco dei russi, mentre la neutralità degli altri Stati scandinavi finisce per essere d’ostacolo ad un eventuale intervento militare anglo-francese a favore della Finlandia. L’attacco russo alla Finlandia è condannato da Pio XII.
Dopo aver occupato la Danimarca e respinto gli Alleati dalla Norvegia, il 10 maggio 1940 i tedeschi, di sorpresa e senza alcuna dichiarazione di guerra, avviano una perentoria offensiva attraverso i territori neutrali del Belgio e quelli dell’Olanda e del Lussemburgo e, in quindici giorni, conquistano gran parte della Francia. Di fronte all’evidente politica di aggressione tedesca, più volte gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna si appellano al pontefice, al quale chiedono una condanna esplicita, ma invano: Pio XII non risponde. Perché? Si sta forse preparando a sfruttare al meglio i vantaggi di una probabile vittoria tedesca, oppure sta cercando di non ostacolare in alcun modo quella vittoria, che potrebbe fermare l’avanzata del comunismo sovietico nel mondo? Non si sa. Il papa non prende posizione nemmeno di fronte alle notizie che gli arrivano sui campi di concentramento e sul tentativo di genocidio degli ebrei. A lungo ci si interrogherà su questi silenzi, ai quali verranno date interpretazioni diverse, che saranno improntate da un atteggiamento critico da parte dei pensatori laici, da un atteggiamento accondiscendente e giustificativo all’interno del mondo cattolico.
Fidando in una facile vittoria, anche l’Italia decide di entrare in guerra a fianco della Germania (10.6.1940) e sferra un’offensiva contro una Francia già vinta, ma senza successo. Adesso i tedeschi devono piegare l’Inghilterra, che però, grazie anche alla sua superiorità marittima e ai rifornimenti di materiale bellico che ricevono dagli Stati Uniti, riesce ad opporre un’indomita resistenza. Nell’intento di giungere al canale di Suez e di tagliare così le rotte navali attraverso le quali la Gran Bretagna riceve il petrolio dal Medio Oriente, truppe tedesche al comando di Rommel sbarcano in Libia (febbraio 1941). Nel marzo-aprile 1941 i tedeschi invadono la Iugoslavia e la Grecia andando a confliggere con gli interessi che da sempre i russi nutrono nell’area dei Balcani, e ciò comporta un deterioramento dei rapporti fra i due paesi. Hitler ne approfitta per coronare il suo vecchio sogno di conquistare uno “spazio vitale” nell’Est europeo e decide di attaccare la Russia. L’avanzata delle truppe inizia il 22.6.1941 ma, dopo alcuni spettacolari successi, deve arrestarsi di fronte al sopraggiungere dell’inverno e all’organizzazione di una valida resistenza da parte dei russi. È in questo periodo che entrano in guerra gli Stati Uniti (11.12.1941), che però, al momento, sono assorbiti nell’impegno contro il Giappone. È così che, alla fine del 1941, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica si vengono a trovare in un unico fronte di lotta.
L’offensiva tedesca riprende nel giugno 1942 conquistando la Crimea, mentre Rommel sta avanzando verso Suez. Si profila così la possibilità di giungere ad un conflitto nel Vicino e Medio Oriente (Palestina e India comprese), dove gli arabi potrebbero insorgere contro l’Inghilterra. Nello stesso tempo, con l’intento di bloccare i rifornimenti americani, i sottomarini tedeschi sono impegnati a colpire le navi in transito nell’Atlantico. Le perdite della marina mercantile britannica ammontano a 412 navi. È l’apogeo per la Germania. Da questo momento inizia il declino. Rommel viene fermato ad El-Alamein, i russi resistono a Stalingrado e l’aviazione alleata comincia a bombardare le città tedesche, mentre in Iugoslavia Tito dirige le azioni di guerriglia della Resistenza. Intanto, a partire dal 1942, lo sterminio nazista degli ebrei è diventato di dominio pubblico e gli Alleati continuano ad esercitare forti pressioni sul papa affinché denunci pubblicamente quel crimine, ma, ancora una volta, Pio XII risponde col silenzio.
Nel febbraio 1943 i tedeschi cedono alla controffensiva dell’Armata Rossa, grazie anche ad un milione di riserve che, fino a quel momento, Stalin ha tenuto segrete, e lasciano sul campo due valorose armate, praticamente immolate alla folle vanagloria di Hitler che si è rifiutato di autorizzare la ritirata a tempo debito (DURSCHMIED 2006: 337ss). Anche in Africa gli Anglo-Americani si affermano, mentre in Italia il regime fascista crolla e i tedeschi devono, da soli, sobbarcarsi l’onere di contenere l’avanzata degli Alleati, mentre devono anche difendersi da una forte Resistenza, che si va organizzando contro l’occupazione nazi-fascista. La Francia può riprendere le armi e ricomincia a combattere. Nella primavera 1944 i russi scatenano una grande offensiva, riconquistano i territori che erano passati in mano tedesca e invadono la Romania e la Bulgaria (aprile-settembre 1944). Il 6.6.1944 gli Alleati sbarcano in Normandia con un poderoso esercito, che inizia ad avanzare.
Nonostante non sia più in grado di competere per la vittoria, la Wehrmacth riesce ad opporre una valida resistenza e si ritira con ordine. Ormai l’ultima speranza di Hitler è riposta nelle armi segrete, i razzi V1 e V2, che vengono lanciati sull’Inghilterra con scarso successo. Nel febbraio 1945 i russi penetrano in Germania e si ricongiungono con gli Alleati (25.5.1945), che intanto sono avanzati da ovest. Vedendo che tutto è perduto, Hitler, che fino all’ultimo ha diretto le operazioni militari dal suo bunker, decide di suicidarsi (30.5.1945).

02. Gli italiani

Pur vittoriosa, l’Italia versa in condizioni negative, per diverse ragioni. A livello internazionale, essa non è considerata uno Stato forte e potente come molti, invece, pretenderebbero, essendo uscita vittoriosa dalla guerra. L’Italia è anche insoddisfatta perché ha sì ottenuto il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto Adige e l’Istria, ma non la Dalmazia, né le isole, né le colonie, e non è la potenza egemone dell’Adriatico, come avrebbe desiderato. Altre note dolenti sono il forte indebitamento dello Stato e le precarie condizioni economiche della gente. Il malcontento popolare è elevato, i lavoratori chiedono aumenti e minacciano di occupare le fabbriche, gli imprenditori affermano di essere in crisi e di non essere in grado di soddisfare le richieste.
Ai reduci della guerra, ai quali sono state promesse terre, denaro e posti di lavoro, non viene dato nulla. Molte fabbriche, che durante la guerra avevano prodotto armi, ora che la guerra è finita, sono costrette a chiudere. Intanto la società appare profondamente cambiata a causa dell’ingresso delle donne nel mondo, in sostituzione di mariti e fratelli, che la guerra ha allontanato dalle loro abituali attività lavorative: anch’esse cominciano a lottare per i propri diritti. A difendere gli interessi della popolazione, all’indomani della guerra ci sono, inizialmente, solo due gruppi politici, i Liberali e i Socialisti, ma la situazione è propizia per l’ascesa di altri soggetti politici e, in effetti, tra il 1919 e il 1921, entrano in scena il Partito Popolare Italiano (cattolico), il Partito Comunista e il Movimento Fascista, il cui leader è Benito Mussolini. Chi è costui?
Originario di un’umile famiglia romagnola, Mussolini (1883-1945) è figlio di un fabbro ferraio e di una maestra di campagna. A 17 anni si iscrive al Partito socialista e a 18 consegue il diploma di maestro elementare e intraprende la carriera scolastica. Coerentemente con le sue idee rivoluzionarie, nel 1902 non si presenta alla leva, ma fugge in Svizzera, dove vive facendo il manovale e propagandando l’ideologia socialista. Espulso dalla Svizzera per la sua attività rivoluzionaria, approfitta di un’amnistia e rientra in Italia, dove presta il servizio di leva (1905-7). Nel 1909 si trasferisce a Trento, dove dirige la locale Camera del lavoro e un settimanale, quindi si stabilisce a Forlì, dove assume la direzione del PSI locale e del relativo organo settimanale, La lotta di classe. Intanto continua a svolgere la sua propaganda, alla quale dà un piglio anticlericale. Nel 1911 viene condannato a 5 mesi di prigione per aver manifestato contro la guerra colonialista di Libia. Nel 1912 si afferma come dirigente nazionale del PSI e dirige l’Avanti.
Nella sua attività di articolista emerge una chiara concezione antidemocratica e piramidale, che prevede una netta distinzione fra un vertice, che comanda e guida, e una base, che obbedisce e segue. Espulso dal PSI (1914), fonda un nuovo quotidiano, Il popolo d’Italia. Richiamato alle armi (1915), viene ferito gravemente (1917). Grazie a quell’esperienza, matura il convincimento che una nazione in armi rappresenti il miglior esempio di un popolo democratico, egualitario, fraterno e virtuoso. A guerra finita (marzo 1919) fonda i “Fasci di combattimento” e avvia una campagna nazionalista, che trova fertile terreno in un’Italia delusa dalla conferenza di Versailles e dalla perdita di prestigio internazionale.
Con la connivenza dell’esercito, dei carabinieri, delle magistrature e delle prefetture, le squadre fasciste, mentre apparentemente lottano per mantenere l’ordine nel paese, in realtà picchiano gli operai, bruciano le sedi dei sindacati e dei giornali di sinistra e reprimono ogni sorta di manifestazione contro la borghesia, gli industriali, i proprietari, i ricchi commercianti e il potere costituito. In pratica, esse sono schierate dalla parte dell’élite dominante e contro le masse popolari amorfe e i lavoratori dipendenti.
L’obiettivo dichiarato di Mussolini, che è quello di restaurare la grandezza dell’Italia, è apprezzato dal re, dalle gerarchie militari e dalla massoneria. Favorevoli al fascismo sono anche molti industriali, che pensano di servirsi del suo autoritarismo per ripristinare la disciplina nelle loro aziende e difendersi dalle rivendicazioni operaie; la chiesa, che vede in esso un sicuro baluardo contro la minaccia comunista, oltre che uno strumento di difesa dei propri interessi economici (ROSSI 1966); molti esponenti di ogni ceto sociale, che vedono in esso un apportatore di disciplina e di ordine in un paese afflitto dalla crisi sociale (DE FELICE 1975). Il consenso popolare verrà poi consolidato dalla propaganda del regime.

Elezioni del novembre 1919 (Partito / Seggi)
Psi / 156
Ppi / 100
Liberali di destra / 23
Liberali democratici (Giolitti) / 91
Radicali / 67
Repubblicani / 9
Socialriformisti (Bonomi) / 21
Combattenti / 33
Fascisti Seggi / 0

A partire dal 1920, mentre il Psi versa in gravi difficoltà e deve subire la scissione dell’ala sinistra guidata da Amedeo Bordiga, che fonda il “Partito comunista d’Italia”, Pcd’I (gennaio 1921), il fascismo avanza, anche grazie ai finanziamenti dei grandi industriali. Nelle elezioni del maggio 1921 Giolitti si allea con Mussolini formando i cosiddetti “blocchi nazionali”, che si affermano con 256 seggi, 35 dei quali vanno ai fascisti. Tuttavia, né Giolitti, né i suoi successori, Bonomi e Facta, riescono a dare stabilità politica al paese e si apre una crisi sociale e politica, che sembra inarrestabile e della quale sa ancora una volta approfittare Mussolini che, dopo aver fondato il Partito nazionale fascista, Pnf (novembre 1921), decide di marciare su Roma (27-29 ottobre 1922). Grazie all’atteggiamento complice di Vittorio Emanuele III (1900-46), egli non solo non viene fermato, ma ottiene anche l’incarico di formare il nuovo governo (30 ottobre 1922), proprio nello stesso anno in cui sale al soglio pontificio Pio XI (1922-39), il quale vede nel fascismo un baluardo nei confronti dell’”anarchia alla quale liberalismo e socialismo conducono”.
Il programma politico di Mussolini è finalizzato alla creazione di un esecutivo forte e coeso, e di uno Stato disciplinato, potente e autarchico. È in questa direzione che si muove una delle prime leggi varate dal nuovo governo, la quale stabilisce che il partito di maggioranza relativa con almeno il 25% dei voti, otterrà i 2/3 dei seggi in Parlamento. Grazie a questa legge, alle elezioni del 1924 i fascisti si vedono assegnati 372 seggi contro i 144 degli avversari. Il deputato socialista, Giacomo Matteotti, che protesta e denuncia brogli elettorali, viene ucciso. Il fatto turba gli italiani e, per qualche mese, Mussolini viene investito da un’ondata di riprovazione morale, l’opinione pubblica gli volta le spalle, i partiti d’opposizione invocano l’intervento del re per abbattere il fascismo. È un momento difficile per Mussolini. Il re però non si muove e il suo operato è condiviso dalla chiesa, la quale spinge il PPI a sostenere il governo e invita don Sturzo, ossia la personalità più in vista dell’antifascismo cattolico, a lasciare l’Italia (1924). Mussolini può così ristabilire la propria autorità e assumere il pieno controllo del paese, di cui diventa il “duce” indiscusso.
Il Duce non dimentica il suo debito di riconoscenza nei confronti del re, della chiesa e di tutti coloro che lo hanno appoggiato nella conquista del potere. Il re è ripagato dalla politica internazionale fascista, che vuole far giocare all’Italia il ruolo di grande potenza e mira a edificare un grande impero: nel 1935-6 Mussolini conquista l’Etiopia e, dopo aver chiesto invano l’approvazione di Francia e Inghilterra, si getta fra le braccia della Germania, con la quale costituisce l’Asse Roma-Berlino (1936); nello stesso tempo interviene nella guerra civile spagnola, aiutando il generale Franco a conquistare il potere (1936-39); nel 1939 invade l’Albania. Alla fine, Vittorio Emanuele III può fregiarsi del titolo d’imperatore d’Etiopia e di re di Albania. Può essere soddisfatto.
La classe imprenditoriale si vede ricompensata dalla condotta di governo, che è improntata sul protezionismo e sull’alleggerimento delle imposte, e che li fa partecipi del potere politico, anche attraverso l’elargizione di cariche governative, ma, soprattutto, perché tiene a bada i movimenti operai d’ispirazione marxista. A favore del papa va lo stanziamento di fondi per le chiese, l’aumento dello stipendio al clero, il salvataggio del Banco di Roma, che tanto sta a cuore al Vaticano, il riconoscimento dell’università cattolica di Milano e delle feste religiose, la collocazione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli ospedali. Abbandonato al proprio destino dalla chiesa, il PPI verrà definitivamente sciolto nell’arco di pochi anni (1926). Un’analoga sorte toccherà agli altri partiti politici, che però continueranno ad operare nei limiti del possibile.
Mussolini non si limita a saldare il debito di riconoscenza nei confronti di quanto lo hanno appoggiato nella scalata al potere, ma si fa anche promotore di una serie impressionante di riforme e iniziative sociali in grado di cambiare l’aspetto del paese e di imprimergli una forte caratterizzazione: realizza una riforma scolastica, ad opera di Giovanni Gentile (1923), che, in parte, è in vigore ancora oggi; promulga un nuovo Codice penale, ad opera del giurista Alfredo Rocco (1931); promuove alcune opere pubbliche e sociali, come la bonifica di zone paludose, la costruzione di strade, acquedotti e nuove linee ferroviarie; dà impulso allo sport attraverso l’istituzione del Coni; favorisce l’agricoltura e la crescita della popolazione; salva dal rischio di chiusura le industrie militari. Grazie a questa politica, l’Italia può conoscere un boom economico (1922-26) e può superare indenne la crisi mondiale del 1929-33.
Ma tutto ciò è finalizzato non tanto al bene della popolazione quanto all’esaltazione del sistema fascista e della persona del duce, come dimostrano le seguenti misure antidemocratiche adottate dal governo: abolizione del regime parlamentare, in modo tale che il Parlamento sia formato solo da rappresentanti del partito fascista, completamente sottomessi alla volontà del duce; scioglimento dei sindacati; abolizione di ogni forma di libertà e creazione di un regime di polizia, allo scopo di tenere sotto controllo la vita pubblica e privata dei cittadini. Per Mussolini conta solo lo Stato, non l’individuo. C’è uno slogan a proposito, che riassume bene la situazione: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”.
Il pontefice spera ancora nel recupero del potere temporale della chiesa e si adopera di conseguenza, ma, alla fine si rende conto che i tempi sono cambiati ed è impossibile tornare indietro, perciò desiste definitivamente dalle sue anacronistiche aspirazioni e si avvia ad una politica di sostegno al fascismo, che non verrà mai meno, anche in occasione delle guerre. I rapporti fra chiesa e fascismo sono così buoni da rendere possibili i Patti Lateranensi (11.2.29) che, di fatto, appianano la rottura, che si era prodotta nel 1870, e riconciliano Stato e Chiesa. I Patti riconoscono il cattolicesimo come la sola religione dello Stato e la città del Vaticano come Stato indipendente e sovrano, garantiscono benefici finanziari alla chiesa e concordano il versamento degli arretrati degli oltre tre milioni di lire previste dalla legge delle Guarentigie a titolo di risarcimento per la perdita dell’ex Stato pontificio, facendo così del Vaticano uno dei principali creditori dello Stato. Non solo: viene anche concessa l’esenzione del servizio militare ai religiosi, si introduce un regolare servizio religioso all’interno dell’apparato militare, si riconoscono tutti i giorni festivi previsti dalla religione cattolica, il matrimonio celebrato in chiesa acquista tutti gli effetti civili, viene introdotto l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari e medie, e altro ancora. È tanta la soddisfazione della chiesa che Pio XI vede in Mussolini l’”uomo della provvidenza”, ma anche l’uomo che ha saputo arrestare l’ondata rivoluzionaria socialista.
Perché la chiesa appoggia il fascismo? Non è soltanto una questione di gratitudine, ma anche ideologica. Col fascismo la chiesa condivide il sostanziale disprezzo dell’uomo come essere libero e capace di autodeterminarsi e la convinzione che il cittadino abbia sempre bisogno di una guida e debba sempre obbedire all’autorità costituita. Del resto, i cattolici non sono chiamati a fare da sé, ma devono restare lontani dalla politica attiva e limitarsi a osservare le disposizioni che la Gerarchia vorrà di volta in volta impartire. È in questa luce che diventa comprensibile il fatto che, sotto il pontificato di Pio XI, vengono appoggiati dalla chiesa tutti i dittatori di destra: Mussolini in Italia, Franco in Spagna, Salazar in Portogallo, Horthy in Ungheria e persino Hitler in Germania. I loro regimi autoritari ben si sposano con la concezione retrograda di un papa, che vuole rilanciare l’idea medievale del primato del potere spirituale su quello temporale, della Chiesa sullo Stato, e ripropone il modello duale della società (Ubi arcano, 1922; Quas primas, 1925), già caldeggiato da Pio X, dove un popolo-gregge segue il capo-pastore, nel rispetto dei princìpi di gerarchia, ubbidienza e ordine. Non solo: in questo modo il papa punta a “costituire sul piano internazionale uno schieramento di paesi in grado di contrastare l’ondata comunista” (VERUCCI 1999: 56).
Il pensiero sociale di Pio XI parte dalla rivendicazione del ruolo assolutamente preminente della chiesa nella definizione dei valori sociali e nell’educazione del cittadino, e, in qualità di Pastore Supremo, sente il dovere di esprimere parole di condanna nei confronti dell’introduzione dell’educazione sessuale nella scuola e della coeducazione di maschi e femmine (Divini illius magistri, 1929), e ripropone il modello di famiglia, il cui fine è primariamente quello della procreazione e in cui la donna è relegata all’interno delle mura domestica col compito di prendersi cura della prole e di rimanere sottoposta e obbediente al marito (Casti connubii, 1930).
In campo economico-politico, Pio XI si dissocia tanto dal capitalismo, quanto dal socialismo, e, pur senza proporre un’alternativa chiara e concreta, si limita ad indicare una generica via di mezzo fra i due modelli, caratterizzata da un minor attaccamento alla proprietà privata, da una ridotta cupidigia e dal rigetto della volontà di predominio dell’uomo sull’uomo (Quadragesimo anno, 1931). Dura è invece la condanna del comunismo (Divini Redemptoris, 1937). L’unico fronte in cui i rapporti sono distesi è rappresentato dal fascismo.
Da parte sua, il fascismo gode di ottima salute, e tutto fila a pennello. “Dal Concordato con la chiesa cattolica nel 1929 alla conquista dell’Etiopia e alla proclamazione dell’impero nel maggio del 1936, sembra che Mussolini e il fascismo procedano di trionfo in trionfo” (VILLANI 1999: 440). Intanto sale al soglio pontificio Pio XII (marzo 1939-59), il quale ha una personalità autocratica: non vuole “collaboratori, ma solo esecutori”. Egli mostra subito di trovarsi in sintonia coi regimi totalitari e subito invia un telegramma con la sua benedizione al generale Franco (1 aprile 1939). Alla vigilia della guerra, nella convinzione che sia conveniente approfittare della forza tedesca per un’ampia affermazione dell’imperialismo italiano, Italia e Germania stringono il “Patto d’acciaio” (22.5.1939), col quale s’impegnano a sostenersi reciprocamente in caso di involontario coinvolgimento in un conflitto armato con altre Potenze.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il duce gode del consenso della maggior parte degli italiani, che vedono in lui l’uomo che ha posto fine alle sterili lotte fra i partiti, ha portato l’ordine e la pace sociale, ha conciliato Stato e Chiesa, ha fatto dell’Italia un paese rispettato all’estero. Inizialmente Mussolini confessa a Hitler che l’Italia non è ancora pronta ad entrare in guerra (settembre 1939), e così è, sia perché essa non dispone di un esercito valido, a parte la marina, che è di buona qualità, sia perché l’opinione pubblica e lo stesso Vaticano sono contrari alla guerra. Ma è impensabile che una grande nazione possa rimanere eternamente neutrale senza correre il rischio di declassarsi e così Mussolini si sente in dovere di trovare al più presto una soluzione in grado di conciliare il suo desiderio di affermare il prestigio nazionale e la necessità di non esporre il paese ad uno sforzo che non è in grado di sostenere.
Alla fine riesce ad individuare un compromesso che lo soddisfa: egli interverrà solo al momento opportuno, quando cioè la vittoria tedesca sarà certa, ma non ancora definitiva e tale che l’intervento dell’Italia possa essere considerato ininfluente. Tale momento si presenta assai presto, e cioè dopo la travolgente avanzata della Wehrmacht, che in sole due settimane sbaraglia l’esercito francese, accreditato per essere uno dei più forti al mondo, e lascia facilmente prevedere un’imminente e definitiva vittoria dei tedeschi. È allora che Mussolini decide di entrare in guerra al loro fianco (10.6.1940), nonostante i consigli di prudenza degli esperti militari. Il re non si oppone: evidentemente, nemmeno lui è sfiorato dal dubbio di una possibile sconfitta.
In verità, il timore più diffuso è quello di non arrivare in tempo per spartire coi tedeschi i frutti della vittoria e lo stato d’animo generale e ben rappresentato da queste parole che il duce rivolge al generale Badoglio, che gli prospetta i rischi legati alla scarsa preparazione militare del paese: “La guerra finirà in fretta. Io ho solo bisogno di un certo numero di morti per sedere al tavolo della pace” (PETACCO 2002: 142). Purtroppo il conflitto si rivela più lungo del previsto e Mussolini, sentendosi in dovere di dimostrare il proprio valore, senza nemmeno consultare Hitler, prende l’iniziativa di attaccare proditoriamente la Grecia (28.10.1940), ritenendola un obiettivo abbordabile, ma anche questa campagna si conclude in un umiliante disastro, risolto solo grazie all’intervento della Werhmacht. Nemmeno nei Balcani e in Africa settentrionale l’Italia riesce a raccogliere successi significativi e, in ogni caso, essa dev’essere soccorsa dal più forte alleato. Ormai è chiaro che l’Italia non è in grado di condurre una guerra parallela e deve accontentarsi di svolgere un ruolo subalterno quello della Germania.
Nell’agosto 1943 gli Alleati occupano la Sicilia e puntano su Roma. Mussolini non può far altro che incitare la popolazione alla lotta, ma comincia a perdere consensi finché, dopo essere stato messo in minoranza dal Gran Consiglio del fascismo, viene fatto arrestare dal re e sostituito col maresciallo Badoglio (luglio 1943). Con questa manovra il re, avendo compreso che ormai la causa del fascismo è persa, intende prendere le distanze dal duce con l’intento di salvare il trono. Come dire: io con quello non c’entro. Ma è una spudorata menzogna e tutti lo sanno. Tutti sanno che il fascismo si è potuto affermare solo grazie al suo appoggio e molti chiedono la sua abdicazione. Intanto la situazione precipita e sia il re che Badoglio devono rifugiarsi al sud, dove intanto sono sbarcati gli Alleati (Salerno, 9.9.1943). In questa circostanza risalta la condotta meschina di Umberto di Savoia che, a 39 anni suonati, abbandona il suo popolo insieme alla moglie e ai quattro figli e fugge al seguito dei suoi genitori, come un bambino impaurito, pensando solo a salvare la sua pelle e il trono. Intanto si sviluppa la Resistenza ad opera delle forze antifasciste, che vogliono dare dell’Italia l’immagine di un paese “cobelligerante”.
Intanto Mussolini è liberato dai tedeschi (12.9.43), che lo manovrano come un fantoccio, e, infatti, pur desiderando ritirarsi dalla vita politica, egli viene indotto da Hitler ad assumere la direzione di un nuovo governo nell’Italia settentrionale, che prende il nome di Repubblica sociale italiana (RSI). Mentre si svolgono questi eventi, si costituisce clandestinamente la Democrazia cristiana (1943), un partito d’ispirazione cattolica, erede del Partito popolare, dal quale differisce perché si proclama laico, aconfessionale e autonomo dall’autorità ecclesiastica. Nella primavera del 1944 viene formato il primo governo di unità nazionale, la cui presidenza è assunta da Ivanoe Bonomi. A causa della strenua resistenza opposta dai tedeschi, gli Alleati possono entrare a Roma solo il 4.6.1944, mente a nord i tedeschi resistono fino alla primavera 1945, poi sono costretti a ritirarsi. Mentre tenta di fuggire, Mussolini viene arrestato dai partigiani e messo a morte (26.4.1945).
Vittorio Emanuele III, che pure era stato uno dei massimi responsabili della dittatura fascista, non manifesta alcuna intenzione di assumersi le proprie responsabilità e, per molti mesi, continua a resistere alla pressioni degli antifascisti, fra cui ci sono molti monarchici, che chiedono la sua abdicazione. Il re resiste finché può, ma il 9.5.46, un mese prima del referendum istituzionale, accetta di abdicare in favore di Umberto, che viene nominato Luogotenente del regno, e si ritira ad Alessandria d’Egitto.

02.1. I Savoia
Dopo il Congresso di Vienna (1815), dal quale si sono visti premiare al di là dei loro effettivi meriti, sì da poter restaurare il Regno di Sardegna, i Savoia appaiono determinati ad accrescere il proprio prestigio e il proprio potere, ma devono fare i conti con il dilagare dei sentimenti nazionalistici e con la domanda di democrazia liberale, che si incarna nella richiesta di una Costituzione da parte del popolo. Il re, Carlo Felice, è ovviamente contrario, perché ciò significherebbe meno potere per sé, e si affretta a revocare la Costituzione che il reggente Carlo Alberto ha maldestramente concessa. I Savoia, invece, vedono di buon occhio l’opportunità di condurre una guerra d’indipendenza contro l’Austria e contro i Borbone, con l’obiettivo finale di estendere il loro regno a tutta l’Italia. Dopo aver raggiunto lo scopo, Vittorio Emanuele II, con l’intento di guadagnare l’appoggio internazionale, specie di paesi come Inghilterra e Francia, decide di accettare lo Statuto albertino, che, comunque, tutto sommato, lascia al re poteri molto ampi.
Agli inizi del XX secolo inizia una nuova stagione politica, che è segnata dalla fine delle monarchie e dalla nascite delle repubbliche. Nel 1917 vengono abbattuti i Romanov, nel 1918 cadono gli Hohenzollern e gli Asburgo. Il re d’Italia, invece, tiene duro e, anzi, approfitta della politica aggressiva del fascismo per fregiarsi del titolo di imperatore d’Etiopia (1936) e quello di re d’Albania (1939). Fa di tutto per opporsi all’avvento della repubblica e della democrazia, ma alla fine deve soccombere e fuggire. “Dopo nove secoli di regno, la vicenda dei Savoia si esaurisce così, in una fuga che ha i contorni di una rotta e nella malinconia di un re troppo piccolo costretto a regnare in un’età troppo grande” (OLIVA 1999: 478).

01. Aspetti generali

Oltre a fare otto milioni di morti, la guerra lascia dietro di sé distruzioni, macerie, desolazione, depressione sociale ed economica, fabbriche chiuse, disoccupazione in aumento, a cui bisogna aggiungere il flagello della “spagnola” che, nel 1918-20, miete centinaia di migliaia di vittime. Particolarmente colpita è l’Europa, che, tuttavia, grazie ad un apparato industriale che, nonostante tutto, rimane ancora tra i migliori al mondo, riesce a superare rapidamente la crisi fino a recuperare, alla fine degli anni Venti, la sua egemonia mondiale.
A livello internazionale la prima guerra mondiale ha apportato cambiamenti così numerosi e profondi da incidere marcatamente sul quadro politico mondiale. Due grandi Imperi sono caduti, quello tedesco e quello ottomano, mentre la dinastia asburgica e l’autoritarismo zarista hanno concluso il loro ciclo storico. Al loro posto si affermano gli Stati-nazione e i sistemi democratico-rappresentativi, mentre irrompe sulla scena una voce nuova, quella del comunismo sovietico, che si pone come valida alternativa al capitalismo liberale dell’Occidente. È la prima volta che un conflitto europeo si conclude grazie all’intervento determinante di una potenza extra-europea, gli USA, e ciò comporta un ampliamento dell’orizzonte in cui si muove la storia: per la prima volta si avverte la necessità di una Società delle Nazioni.
Il conflitto ha modificato gli equilibri mondiali e, anche se l’Europa riesce a conservare la sua posizione di preminenza nel mondo, tuttavia, da questo momento, essa deve fare i conti proprio con gli USA che, insieme al Giappone, hanno incrementato la loro area d’influenza economica e finanziaria e rappresentano le potenze emergenti. I cambiamenti sociali ed economici sono talmente evidenti e rapidi da porre i paesi industrializzati ad un livello superiore rispetto al resto del mondo, soprattutto Africa ed Asia, creando condizioni che non consentono una competizione ad armi pari e favoriscono lo sfruttamento e l’emarginazione delle parti deboli.
Dal punto di vista socio-economico, all’indomani del conflitto mondiale, in una parte del mondo, che è poi la stessa che ha partecipato attivamente alla guerra, ci troviamo in piena terza rivoluzione industriale (1900-1970), che è caratterizzata da un continuo miglioramento nei trasporti, dalla diffusione di nuove tecnologie (elettricità, radio, telefono, automobile, aereo, elettrodomestici, cibi in scatola, abiti confezionati, cinema) e di tanti altri prodotti industriali, che alimentano il consumo di massa, aumentano la sensazione di benessere delle popolazioni e pongono in buona luce il sistema capitalistico, che è visto da molti come un sinonimo di ricchezza collettiva, un salto di qualità nei confronti della vecchia società contadino-feudale, un modello economico superiore e irresistibile. Altri però sono allarmati dalle ingiustizie sociali generate dal capitalismo, oltre che dallo sperpero di risorse e dall’eccessivo inquinamento ambientale generati dal consumismo, e perciò ritengono preferibile l’ideologia comunista.
Nella vita economica continua a trionfare il nazionalismo, ossia la tendenza a tutelare gli interessi nazionali, attraverso politiche protezionistiche (aumento delle tariffe doganali) e favorevoli alle esportazioni (svalutazione della moneta), il che può non favorire i buoni rapporti fra gli Stati e lascia presagire nuovi conflitti. La tendenza in Europa è quella di creare Stati sempre più forti e sicuri di sé, e cosa c’è di meglio in tal senso che affidarsi a regimi dittatoriali? Così avviene in Ungheria (1920), in Italia (1922), in Bulgaria e Spagna (1923), e poi, negli anni successivi, in Albania, Germania, Polonia, Portogallo, Lituania, Iugoslavia, Romania, Austria, Lettonia e Grecia, dove la propaganda di regime assicura alle rispettive popolazioni di trovarsi nel migliore paese possibile e al riparo da ogni pericolo, soprattutto dal pericolo comunista che viene dalla Russia.
Nel 1935 sono già ben individuabili tre principali blocchi politici antagonisti: da una parte le tre grandi potenze liberali, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, che esercitano un’influenza sulla maggior parte del mondo, dall’altra le tre potenze totalitarie, Germania, Italia e Giappone, che appaiono determinate a conquistare posizioni e ad insidiare la supremazia delle prime, e poi c’è il comunismo sovietico, che si propone come modello alternativo, ed è del tutto inviso e incompatibile con gli due blocchi.
Nel mondo degli intellettuali i favori vanno ai regimi forti, mentre i governi che concedono spazi alle masse vengono visti con diffidenza e denigrati. Così avviene che, tanto la dittatura del proletariato quanto la democrazia parlamentare sono fatti bersaglio da molti studiosi, come Barrès, Maurras, Keyserling, Spengler, Pareto e Mosca, i quali decantano la lunga tradizione elitaria e piramidale dello Stato. In un libro di grande successo, La ribellione delle masse, Ortega y Gasset vede nell’ascesa al potere da parte del popolo una vera e propria “invasione verticale dei barbari”, la causa fondamentale della profonda crisi che scuote la civiltà europea. Le ragioni di questa crisi sono eliminabili, secondo l’autore, solo con una coraggiosa restaurazione di vecchi schemi di vita sociale e di lotta politica: divisione fra élites e masse e ritorno ad una strutturazione rigidamente gerarchica della società. L’imperativo categorico è che le masse rimangano fedeli alla loro “biologica missione”, che è quella di obbedire alle minoranze eccellenti. Questo spirito è favorito anche dal darwinismo sociale e dalla diffusione del mito del superuomo sostenuto da Nietzsche.